Leggenda della Conca Agordina

«Il gesto narrativo della leggenda trasforma ogni preciso pezzetto di terra da mera formazione di tipo naturale quale è in un piccolo paradiso, in un mondo di valori culturali. È l’uomo che crea il paesaggio, costruendo un complesso discorso tra realtà e fantasia, tra le cose e le idee»

(Ulrikle Kindl)

Se volessi descrivere la splendida valle di San Lucano, immaginando di osservarla dalla omonima grotta, partirei dall’osservazione della geologia e morfologia, spiegando che si tratta di una profonda e caratteristica valle glaciale ad U, la più alta delle Dolomiti. Descriverei poi, come fosse uno strato sovrapposto, la sua rete idrografica, con il torrente Tegnàs che ne percorre il solco principale, e parlerei poi della vegetazione che la ricopre come un vestito, fin sulle cenge più impervie. Sopra questo strato eccone subito un altro: la rete di strade e mulattiere, i ponti, i villaggi, le malghe, la chiesa, i capitelli, tutto quello che l’uomo ha costruito caratterizzando il paesaggio che ora vediamo … ed anche le calchere e le carbonaie, testimonianze importanti di un epoca ormai passata. Ma sopra a tutti questi strati sovrapposti, come un tessuto invisibile, ce n’è un ultimo, che non si vede ma permea ogni luogo. E’ l’insieme di toponimi, tradizioni, leggende che caratterizza la valle, e le da un carattere particolare, un anima indissolubilmente legata alla sua natura selvaggia e alle vicende delle genti che vi abitavano un tempo. Gran parte delle leggende parla di San Lucano e dei suoi miracoli, ma una se ne discosta per ricollegarsi ad una natura severa e temuta e forse ad antichi riti pagani o figure mitologiche. E’ la leggenda della Bissa bianca, che affonda le sue radici in tempi antichi quando la valle si chiamava ancora val Bissera o Val Serpentina, perché infestata dalle vipere … Risale a quel tempo questa antica storia dove si narra che gli abitanti della valle, non sapendo più come liberarsi dalle vipere, chiamarono in aiuto uno stregone o pifferaio del Primiero, o in altre versione uno strion di Moena,  capace di attirare con il suo flauto i serpenti e portarli a morire. Come tutte le antiche leggende anche questa è stata certamente tramandata oralmente di generazione in generazione, finché attorno al 1878 il luogotenente Giunio Bruto Paganini, che faceva il militare in Agordino, ne riportò il testo in versi, lasciandocene una originale versione scritta. Questa versione della antica leggenda si affianca ad altre più popolari, come quelle che vedono intervenire San Lucano in persona per scacciare i terribili serpenti, ma a tutte è comune l’arrivo della gigantesca Bissa Bianca e la sua fine nel fuoco della calchera.

Riportiamo qui una versione più comprensibile dell’antica storia, con degli inserti in corsivo tratti dal testo del  Paganini  che ci riportano indietro negli anni. A far da coreografia all’antico mito della Bissa Bianca una stampa di Vico Calabrò, ed un’altra splendida rappresentazione della vicenda.

Ricordando infine che non di fole o sciocchezze si tratta, ma della storia delle popolazioni di queste valli e montagne, che attraverso il patrimonio di miti e leggende spiegava fenomeni naturali altrimenti incomprensibili o raccontava di eventi come guerre, invasioni,trattati, matrimoni tra regnanti. Natura e storia come la vedevano e la interpretavano le povere genti, che ci permettono uno sguardo “diverso”, ma altrettanto importante, sulla vita di un tempo e sugli antichi accadimenti.

La Leggenda della Bisa Bianca

La leggenda della Bisa (o Bissa) Bianca è un racconto popolare molto famoso in Conca Agordina, Cuore delle Dolomiti. La leggenda, che racconta la liberazione della Valle di San Lucano (Taibon Agordino) dai serpenti, è spesso messa in relazione con la figura di San Lucano e, sembra, ispirata da oscuri fatti di cronaca avvenuti al tempo dell’edificazione della Chiesetta di San Cipriano.

Stando alla leggenda, la Valle di San Lucano era un tempo un luogo inospitale, pieno zeppa di serpi velenose,tanto da essere chiamata Val Bissèra o Val Serpentina. Gli abitanti, esasperati dalla presenza dei rettili,riunitisi in assemblea decisero di chiedere aiuto ad un esperto del settore, tale Strigòn da Moena .

Il vecchio accorse in soccorso dei Taibonèr ed accettò l’incarico dì liberare la valle dai serpenti, a patto che gli abitanti del luogo gli garantissero che non era presente in valle la mitica Bisa Bianca e poiché nessuno dei Taibonèr aveva mai visto la creatura, rassicurarono lo strigòn.Il fattucchiere fece erigere una calchèra enorme (i tipici forni per la cottura della calce, ancora visibili in molti

villaggi e boschi agordini) e la fece riscaldare per tre giorni e tre notti. Il forno, ardendo ininterrottamente, raggiunse temperature talmente elevate da rischiarare con le tinte dell’Enrosadira le pareti delle Pale di San Martino anche durante le ore notturne.

A quel punto, lo Strigòn da Moena iniziò ad intonare con un piffero una strana melodia. Al richiamo della musica, milioni di serpenti di ogni specie accorsero e si gettarono all’interno della calchèra incandescente,bruciando immediatamente.

Proprio quando l’opera sembrava compiuta, terrorizzati i Taibonèr videro strisciare dalle cime delle Pale di San Martino giù per la val d’Angheraz la gigantesca Bisa Bianca:

·· Sora le crode del Coston del Mièl,

un fis-cio fa tremà fa tera e ‘/ Zièl;

l’era fa Bisa Bianca che vegnìa

fòra per la va!ada d’Angheràz’

(“Sopra le crode del Coston del Miei, un fischio fa tremare la terra e il cielo; era la Bisa Bianca che usciva dalla Val d’Angheràz”)

Lo stregone si issò su un albero, mentre i Taibonèr cercarono di mettersi al riparo dalla tremenda creatura:

“Tuta la zent la scampèa

ma co i ha vist che la ‘ndea dreta dreta

a la fornass, turi quanti sperea

che in mez de chela brasa la finisse

in compagnia de tute le altre bisse”

(“Tutta la gente scappava, ma quando videro che andava dritta dritta alla fornace, tutti speravano che finisse in mezzo alla brace in compagnia di tutte le altre serpi”)

La Bisa Bianca proruppe in valle, lunga almeno cento metri; e prima di tuffarsi nella calchèra, vede lo stregone ancora fermo sull’albero, lo sradica e lo trascina con sé nella fornace rovente:

“e po la alza la testa verso e/ pez

e fa vet lassù chel da Moena;

senza nè tre nè quatro,

la se intorco/a inton del po/on

la se sforza; la tira, la e/ despianta

e inte la calchera, tut un rebaltòn,

va /’a/ber a brusase, ela e l’ Strigòn”

(“e poi alza la testa verso l’albero e vede lassù quello [lo Strigòn] da Moena; e senza tre nè quattro, si attorciglia intorno al tronco, si sforza, tira e lo sradica, e dentro la fornace, contorcendosi, brucia l’albero e anche il fattucchiere”)

Scompaiono così fra le fiamme sia il mago che la grottesca creatura. Da allora, a quanto si dice, non sono più state viste serpi in Valle di San Lucano, né nessuno ha mai più la Bisa Bianca, sebbene, stando alla leggenda, l’eco dell’apparizione della bestia suscita ancora paura e raccapriccio in tanti Taìbonèr che guardano al fondo della Valle di San Lucano.

“Da chela alta in qua, inte in Val,

no se ha pi vist na bisa;

de lujo i fa la inte un caneval,

i ha piantà casete in mez ai sas,

brontola sempre l’acqua del Tegnàs.

E tuti chei aonizz e chei bei faghér,

chela cesèta là fora del bòsch,

le zime dell’Agnèr, senza èse impostòr

ghe scomète, che a tuti

ghe fa ancora buligà un cantòn del cor’

(da allora, in Valle di San Lucano non si vide più un  serpente. A luglio si fa li una festa [la Sagra de San Lugàn], ci hanno eretto casette in mezzo ai sassi e sempre brontola l’acqua del Torrente Tegnas. E tutti quei bei ontani e faggi, quella chiesetta al limitare del bosco, le cime dell’Agner, scommetto, senza timore dì straparlare, che a tutti fanno ancora sobbalzare il cuore).